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I lavori della terra
L'attività nei campi rappresentava il nucleo attorno al quale si articolavano le principali mansioni contadine, sebbene, nelle regioni dell'arco alpino e prealpino, le condizioni climatiche ed ambientali condizionassero in misura decisiva i lavori della terra, a tal punto da imporre "strategie produttive miste", come l'agropastoralismo e la selvicoltura.
Il lavoro contadino si strutturava in modo piuttosto eterogeneo in relazione alla ciclicità delle stagioni, comprendendo, soprattutto durante i lunghi periodi invernali, diverse occupazioni riguardanti la conduzione della stalla e un vero e proprio artigianato domestico, relativo alla lavorazione di differenti materiali: legno, metalli, pietra, ecc. è di conseguenza possibile constatare come, in riferimento alle comunità sorte sui versanti delle Alpi e delle Prealpi, l'appellativo di "civiltà contadina" sia stato sovente generico, fino ad apparire in qualche caso arbitrario e fuorviante.
L'immagine del "contadino-artigiano" era, infatti, piuttosto frequente; così come il "saper fare" era largamente condiviso. Ciò non significa che ogni "paesano" fosse al contempo pastore, carpentiere, falegname, fabbro o calzolaio. Tuttavia tutti, o quasi, sapevano maneggiare la sgorbia, lo scalpello, il coltello, forse anche la pialla, più raramente il tornio.
Lavorazione dei campi in montagna
Nell'area collinare e montuosa delle Prealpi lombarde, l'attività agricola si organizzava, in genere, come coltivazione in pendio. Peculiare era infatti la sistemazione, sui declivi erbosi, di campi terrazzati. Una tecnica colturale indispensabile al fine di arginare i frequenti fenomeni di smottamento ed erosione del terreno, indotti dalle peculiarità idrogeologiche della regione.
L'adozione di un simile sistema nella conduzione dei campi è ampiamente documentata anche sui versanti delle Prealpi Varesine, innanzitutto dal rinvenimento di numerosi muri a secco e dalla toponomastica. Qui abbondano toponimi quali Ronchetti e Ronco, nome quest'ultimo con il quale, in molte località del Ticino e della Lombardia nord-occidentale si indicavano i pendii erbosi a terrazza.
A terrazzamenti e ciglioni seguivano talora, nelle zone a minor pendenza, arature a cavalcapoggio e tagliapoggio, dove il campo veniva più semplicemente suddiviso in fasce orizzontali parallele al versante della montagna.
D'altra parte non bisogna trascurare come nella fascia prealpino lombarda siano numerose le testimonianze di usi agricoli piuttosto articolati, nei quali ai pascoli d'alpe, principale fonte di sussistenza, si affiancavano la viticoltura, talora marginale nel sistema produttivo montano, la selvicoltura e la cerealicoltura, specialmente di orzo e segale, più raramente di frumento; oltre alla coltivazione del granturco e della patata.
Esempio di aratura a cavalcapoggio.
Immagine tratta da: Touring Club Italiano (a cura di), Campagna e Industria. I segni del lavoro, Milano 1981, p. 28.
Esempio di aratura a tagliapoggio.
Immagine tratta da: Touring Club Italiano (a cura di), Campagna e Industria. I segni del lavoro, Milano 1981, p. 28.
L'aratro
Nella maggior parte dei casi, soprattutto dove i pendii non erano troppo scoscesi, il dissodamento e lo scasso del terreno si effettuavano mediante l'impiego dell'aratro, la cui diffusione dipese, oltre che da non trascurabili fattori etnografici e storici, dalla natura dei suoli (sabbiosi, argillosi, pietrosi, ecc.).
Erano infatti la morfologia del territorio e il tipo di terreno a vincolarne sensibilmente la forma, le dimensioni e la fattura. Invero, nelle zone più ripide dell'arco alpino, l'aratro non si sostituì mai completamente alla zappa o alla vanga, a causa dell'eccessiva pendenza e delle dimensioni ridotte dei campi.
In tali località si preferì di fatto l'impiego di zappe a manico lungo e dritto, con lama stretta e a punta, molto più efficaci nello scasso del terreno sui versanti più ripidi.
Tuttavia, è possibile distinguere forme alpine di aratro che, in genere, diversamente da quelle di pianura, erano contraddistinte da bure non particolarmente lunga e stegola corta e ricurva. Mentre i tipi più arcaici, di impiego in aree conservative, si distinguevano, di solito, per il vomere simmetrico e per l'assenza di versoi e profime, quest'ultimo indispensabile nel regolare la profondità del solco. Il tradizionale aratro di legno simmetrico poteva essere, altresì, utilizzato per smuovere il campo già arato oppure per rincalzare patate e granturco.
L'aratura del campo.
Foto da: D. Coltro, La terra e l'uomo, Cierre Edizioni, Verona 2006, p. 247.
La cerealicoltura: dalla mietitura alla pulitura
Nel sistema agropastorale montano le superfici di terreno dedite al seminativo cerealicolo erano piuttosto circoscritte; tuttavia alla scarsa estensione del frumento, a diffusione maggiore nelle località più pianeggianti e soleggiate, faceva da contrappeso una più abbondate coltura della segale e dell'orzo, cereali con rese migliori a maggiori altitudini e in condizioni climatiche più rigide.
La coltivazione dei cereali si suddivideva in differenti fasi di produzione, la durata e il periodo delle quali dipendevano dalle proprietà naturali dell'ambiente geografico. Sui versanti delle alture alpine la raccolta si effettuava, generalmente, a partire dai mesi di agosto e settembre, se non addirittura ad ottobre, periodo durante il quale avveniva la raccolta delle patate e la semina della segale.
La mietitura - Nelle regioni montuose, dove sovente i campi erano di dimensioni ridotte, la mietitura si strutturava come attività collettiva, che coinvolgeva al contempo uomini e donne. Fino a configurarsi come occupazione esclusivamente femminile, nelle aree alpine ad elevata emigrazione stagionale. Qui non era rara, laddove le estensioni dei terreni erano maggiori, l'assunzione di braccianti per tutto il periodo della raccolta, pagati per lo più in denaro. I mietitori operavano spesso in squadre, composte da un numero di lavoranti variabile in relazione all'estensione del campo. Dove la mietitura interessava ampie superfici di terreno, ogni gruppo era guidato da un caposquadra, caporale, che scandiva il ritmo. Secondo le usanze della zona e la destinazione di paglia e stoppie, le piante di segale, orzo o frumento avrebbero potuto essere tagliate a differente altezza. Il grano veniva reciso rasente terra, o a un'altezza di 10-20 cm., quando se ne voleva utilizzare la paglia per fabbricare tetti e capanne o per foraggiare il bestiame.
La raccolta e la conservazione - I culmi, dopo la mietitura, erano disposti in lunghe file (andane) oppure raccolti in mucchi di modeste dimensioni che, lasciati alle volte ad asciugare sul campo per due o tre giorni, erano in seguito raggruppati in covoni. Questi venivano legati con paglia o legacci di giunco e carice, più raramente con bacchette di salice o ramoscelli di vite. Nella maggior parte delle regioni alpine, i covoni venivano successivamente trasferiti sotto le tettoie di protezione della casa o del granaio. Mentre nelle valli più basse, come nelle zone collinari e pianeggianti, la tendenza era quella di lasciarli ad essiccare per alcuni giorni sul campo, per poi trasportarli nell'aia o in appositi luoghi (granaio, fienile, sottotetto, ecc.), dove erano conservati fino alla trebbiatura che, sui versanti alpini, a causa di condizioni climatiche poco favorevoli, avveniva generalmente verso l'inverno.
La trebbiatura - L'aia era il luogo dove i cereali venivano trebbiati. Questa avrebbe potuto essere all'aperto (cortile, corte, spiazzo) oppure in un ambiente chiuso, nel fienile o nella casa (in genere si trattava di una soffitta o un solaio). La trebbiatura consentiva la separazione delle cariossidi (frutto secco) dalla paglia e dalla loppa (pula - involucri del seme) e poteva essere effettuata manualmente, mediante bastoni e correggiati, oppure con pietre e tronchi d'albero scanalati (rulli) a traino animale.
L'impiego del correggiato per la trebbiatura dei cereali e del granturco.
Foto da: P. Scheuermeier, Il lavoro dei contadini. Cultura materiale e artigianato rurale in Italia e nella Svizzera italiana e retoromanza, Longanesi & C., Milano 1980,vol. I, f. 222.
La pulitura - Tale attività era indispensabile al fine di eliminare i residui della trebbiatura dal cereale, in seguito stivato. Si procedeva, inizialmente, alla rimozione della paglia, in genere mediante l'uso di una forca fienaia o di particolari rastrelli. Quindi le granaglie venivano raccolte in un mucchio, così da consentirne la completa spulatura, ovvero la separazione della pula e delle impurità (frammenti minuti di paglia e spighe, erbacce, polvere, ecc.) dai chicchi. La spulatura poteva avvenire per mezzo di due procedimenti differenti:
I) per ventilazione, ossia lanciando in aria le granaglie mediante l'utilizzo di un ventilabro (pala a mano, palotto, vallo, ecc.). Il gesto consentiva la separazione delle parti leggere (pula ed impurità) da quelle più pesanti (chicchi), che sotto l'azione della gravità ricadevano nel ventilabro;
II) per crivellazione, vale a dire scuotendo le granaglie in una sorta di setaccio ad intreccio più o meno rado (crivello).
I due sistemi avrebbero potuto essere combinati, garantendo anche la divisione dei chicchi buoni da quelli cattivi.
Rastrelli impiegati nella rimozione della paglia, dopo la trebbiatura.
Immagine da: D. Coltro, La terra e l'uomo, Cierre Edizioni, Verona 2006, p. 296.