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L'allevamento in montagna
Transumanza autunnale.
Foto da: M. Verona, Dove vai pastore? Pascolo vagante e transumanza nelle Alpi Occidentali agli albori del XXI secolo, Priuli & Verlucca, Ivrea 2006, p. 10.
Nelle regioni montuose, a causa degli evidenti vincoli geografici ed ambientali, le attività agricole non erano solo marginali, ma anche relativamente ridotte e poco produttive. D'altro canto, non si trascuri come gran parte del territorio compreso tra la catena alpina e le sottostanti pianure sia per più di un quarto sterile, essendo coperto da laghi, corsi d'acqua, nude rocce, nevai e ghiacciai. Così, sebbene importanti nell'economia delle comunità alpine, le risorse dei campi non sarebbero state sufficienti. La pastorizia consentiva, perciò, di integrare le attività agricole, rendendo possibile lo sfruttamento degli incolti. Il paesaggio era di conseguenza composto da: coltivi, prati necessari alla produzione di fieno per la stabulazione invernale del bestiame e pascoli magri d'alta quota (alpeggi inferiori e superiori), dove in estate erano condotte le armenti al pascolo. Il numero di animali generalmente posseduto da un unico nucleo famigliare era piuttosto ridotto. Ciascun aggregato domestico, di solito, era proprietario di due o tre mucche, un paio di giovenche, pochi buoi, alcune pecore e qualche capra. Durante l'estate, era generalmente consuetudine separare i capi di bestiame in base alle differenti esigenze: le mucche da latte pascolavano dove l'erba era migliore, giovenche, capre e pecore venivano invece condotte verso l'alpeggio più vicino, secondo spostamenti in genere graduali. Il modo più efficace di condurre gli animali al pascolo, senza sottrarre manodopera all'agricoltura, consisteva nell'affidare il bestiame ad un numero adeguato di mandriani/pastori. Simili forme comunitarie di conduzione delle attività pastorali, mediante rotazione dei pascoli e l'assunzione di personale specializzato (fino a dieci o quindici persone), erano diffuse nella maggior parte delle regioni alpine e prealpine. Anche nella fascia collinare e montuosa compresa tra il lago Maggiore e quello di Lugano, con molta probabilità, si adottò un comportamento di conduzione comunitaria dei pascoli. A Brinzio, ad esempio, ancora nella seconda metà dell'Ottocento, era consuetudine affidare le mandrie a pastori salariati dalla comunità, responsabili di condurre in estate il bestiame verso i prati più alti. Da un censimento del 1869, si desume che nel piccolo borgo prealpino si allevassero soprattutto bovini (conteggiati per 204 capi), quindi suini e cavalli. Qui, lo sviluppo dell'allevamento bovino, nella seconda metà del diciannovesimo secolo, indusse ad istituire una latteria sociale per burro e formaggi (1891). Un'attività che, tuttavia, cessò poco dopo, non essendo già più riconosciuta nel 1897.
torna all'inizioLa stalla
La stalla (Brinzio).
Luogo nel quale si svolgevano numerose attività quotidiane, non necessariamente legate all'allevamento (come il filare nelle fredde sere d'inverno), la stalla era in genere suddivisa in poste (posti). Queste, sollevate da terra pochi centimetri, erano separate da colonne in muratura, legno o ferro. Il soffitto era solitamente di assi o a volta. Di fianco al lato lungo delle poste, scorrevano i canali di scarico, necessari al deflusso di liquami e deiezioni dei bovini nella buca di raccolta (pozzo nero). In testa, addossata alle pareti, vi era la greppia del fieno (mangiatoia), con una sponda di 50-60 centimetri e recante nella parte superiore un travicello, dove buoi, mucche o vitelli venivano legati con catene di ferro. Poco più sopra, si aprivano le finestre, una per posta e di piccole dimensioni, quadrate o rettangolari e difese da inferriate. Durante i mesi invernali, le finestre avrebbero potuto essere chiuse da imposte di legno e tela. Quando l'inverno si mostrava particolarmente rigido, era inoltre consuetudine occludere gli spifferi di porte e finestre con sterco bovino. Talora, accanto alla stalla, si poteva trovare una casara e, nelle sue vicinanze, di solito al di sotto di un porticato, gli abbeveratoi. Gli attrezzi utilizzati nella stalla riguardavano innanzitutto la mungitura e la cura del bestiame bovino: secchi di legno o latta, stracci per la pulizia, striglie per l'igiene del pelo, sgabelli a quattro, tre o ad una gamba per la mungitura, forche da fieno e da letame, oltre al bidone del latte, le brente e gli strumenti indispensabili per l'assistenza al parto.
La stalla (Brinzio).
La fienagione
La fienagione e la falce fienaia (re ranza). Disegno di Ettore Liuzzi.
Durante i mesi estivi, la pratica della fienagione occupava quasi completamente le attività dei contadini, in quanto il fieno (erba essiccata al sole) rappresentava l'alimento principale per i bovini. Tra maggio e giugno, aveva dunque inizio lo sfalcio dei prati più bassi. Dove l'allevamento era di rilievo nell'economia del paese, era consuetudine distinguere i prati in grassi, di solito vicino all'abitato, concimati e dal raccolto abbondante, e magri o di montagna, soltanto brucati, o tutt'al più falciati un sola volta verso la fine di luglio. Il numero di sfalci stagionali dipendeva, ovviamente, dalla posizione geografica, oltre che dai comportamenti produttivi adottati dalle singole comunità. Ad esempio, nelle zone più pianeggianti, in condizioni favorevoli, si sarebbero potuti ricavare anche quattro o cinque tagli all'anno, specialmente in quelle località dove si coltivavano le erbe foraggiere più produttive, come l'erba medica. Nella fascia delle Prealpi lombarde, lo sfalcio si svolgeva, di norma, in tre distinti periodi dell'anno: a maggio (maggengo, richiedeva più tempo per essiccare), ai primi di agosto (agostano) e, solitamente, a fine settembre (terzarolo). Gli utensili di impiego, comuni in tale attività, erano la falce fienaia ed il falcetto. Il taglio si effettuava molto presto al mattino. I falciatori si recavano nei campi già verso le quattro, per evitare le punture di zanzare e tafani. Il falcio procedeva da destra verso sinistra, formando lunghe file di erba appena tagliata (andane). La falciatura proseguiva quindi fin verso le otto, quando nei campi giungevano le donne con la prima colazione. Mentre gli uomini si concedevano così una breve pausa, le donne cominciavano con lo stendere l'erba sul prato. Nello svolgere tale mansione si utilizzavano forche in legno a due rebbi (forca fienaia), rastrelli o più semplicemente bastoni con una forcella naturale all'estremità. L'erba veniva rivoltata nella tarda mattina e nel primo pomeriggio, al fine di consentire l'evaporazione dell'umidità, mentre, verso sera, si raccoglieva in mucchi con l'aiuto di forche a tre denti e rastrelli. In questo modo si evitava che la rugiada notturna o un improvviso temporale estivo potessero danneggiare il fieno. Il giorno seguente, l'erba tagliata veniva nuovamente sparsa sul campo, in tarda mattinata si provvedeva a rigirarla e, finalmente nel pomeriggio, il fieno veniva caricato sui carri e trasportato alla cascina. In alcuni casi si rendeva necessaria una terza giornata di lavoro, al fine di ottenere una migliore essiccazione.
Il trasporto del fieno. Disegno di Ettore Liuzzi.