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La bottega del fabbro

La bottega d'ur farèe (Brinzio)
La bottega d'ur farèe (Brinzio)

In molte comunità alpine e prealpine, ancora verso la metà del Novecento, sussistevano numerose attività artigiane; tra queste, di vitale importanza nell'economia agrosilvopastorale di montagna, vi era senza dubbio quella del fabbro.

La bottega nella quale lavorava era, in genere, un angusto locale, talvolta annesso all'abitazione, e occupato prevalentemente dalla fucina dove, all'occorrenza, le braci avrebbero potuto essere ravvivate dal soffiare del mantice.


La bottega d'ur farèe, interno (Brinzio)
La bottega d'ur farèe, interno (Brinzio)

Il castello per ferrare i buoi
Il castello per ferrare i buoi

Le mansioni del fabbro erano essenzialmente legate alla fucinatura e alla sistemazione di attrezzi ed utensili di utilizzo comune nei campi, nella stalla, nella casa o nei boschi.
Ad esse, in assenza di un carradore specializzato, si aggiungevano lavori di manutenzione e riparazione di carri e barozze, oltre all'attività di maniscalco che, a Brinzio, consisteva nella forgiatura e nella messa in opera dei ciapp - i ferri che proteggevano gli zoccoli dei buoi. Una volta legato l'animale ad un anello di ferro a muro, si ferravano le zampe anteriori all'esterno della bottega, la quale si apriva direttamente sulla strada. Per gli arti posteriori invece, si provvedeva a rinchiudere il bue nel castello, un recinto in legno non distante dalla fucina, all'interno del quale l'animale non avrebbe potuto scalciare.

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La Miniera di Brinzio

Sulla base di una prima indagine delle fonti documentarie conservate presso l'Archivio di Stato di Milano, è possibile rinvenire testimonianze certe relative allo sfruttamento di alcune vene metallifere nei limitrofi di Brinzio dal 1300 circa. Tra il tredicesimo e il quattordicesimo secolo, sono infatti documentate alcune attività estrattive di depositi ferrosi in località Monte Farèe o delle Ferre, altresì noto come Bosco Ferrera, sotto la cima del Monte Legnone. È inoltre verosimile che il minerale qui estratto fosse di seguito trasportato e lavorato nel vicino comune di Ferrera, dove, come suggerisce il toponimo, era probabilmente in funzione un maglio idraulico per la fucinatura del ferro.

Notizie di maggior rilievo, in grado di comprovare l'attività della miniera di Brinzio, si ritrovano solamente a partire dalla seconda metà del Settecento nei testi di alcuni scienziati viaggiatori.
È difatti l'abate ligure Carlo Amoretti (1741-1816) a segnalare, nel Viaggio da Milano ai tre laghi Maggiore, di Lugano e di Como, e ne' monti che li circondano (1794), la riapertura di alcuni filoni di ferro spatico nei pressi di Brinzio.
Poco dopo, nel 1808, Francesco Rusconi di Cunardo inoltrava richiesta di privativa per lo scavo di alcune vene metallifere rinvenute nel dicembre dell'anno precedente nella medesima località. Sebbene le tracce di pirite commista a barite fossero state stimate di mediocre consistenza dal barnabita Ermenegildo Pini (1739-1825), delegato delle miniere del Regno d'Italia Napoleonico, la licenza di intraprendere la coltivazione del deposito fu concessa.
D'altro canto, Rusconi faceva notare come i comuni limitrofi disponessero di fitti boschi, comoda risorsa in grado di assicurare un adeguato approvvigionamento di legname; la spesa inoltre di lire 6000 per dare inizio alle escavazioni e di lire 8000 per l'installazione del nuovo maglio di Brinzio, convinsero il ministero dell'Interno ad incoraggiare l'esercizio. Ma, nei rendiconti del 1810, le attività di scavo erano ancora definite sperimentali e, nel 1811, Rusconi, incapace di far fronte alle difficoltà incontrate nell'estrazione del minerale, chiedeva l'assistenza del governo.

Tra il 1808 e il 1810, furono impiegati nella miniera di Brinzio dai due ai tre scavatori; il materiale qui estratto era di seguito trasportato a Varese, a Lugano e verso Intra. Gli sforzi compiuti per mantenere in opera l'attività ebbero però esito negativo; nel 1814 gli scavi erano già stati interrotti.
A metà Ottocento, il Dizionario Corografico della Lombardia, riferendosi ai giacimenti ferrosi siti nei pressi di Brinzio, così scriveva: "Sonovi indizi di miniere di ferro, ma non scavate per mancanza di combustibile".
Sono invece degli anni '70 dell'Ottocento, le informazioni mineralogiche del naturalista valcuviano Leopoldo Maggi (1840-1905) a proposito di alcuni filoni di ferro, calcopirite e galena argentifera nei limitrofi di Brinzio e in Val Molina.
Risalgono al 2 ottobre 1939 le richieste di Angelo Luigi Colombo, indirizzate al Corpo Reale delle Miniere (distretto di Milano), al fine di effettuare una serie di prospezioni metallifere sui versanti del Legnone; mentre nel maggio del 1942, veniva concesso a Mario Palanti il permesso di attuare ricerche di minerali di ferro, piombo, argento e rame in località Chiusarella e Passo Varro. Le esplorazioni, eseguite tra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento, non condussero però ad alcuno sfruttamento minerario.

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Il Maglio di Ghirla

Il Maglio di Ghirla, esterno (località Valganna)
Il Maglio di Ghirla, esterno (località Valganna).

Tra i numerosi nuclei artigiani del ferro che sfruttavano la forza motrice dell'acqua nel territorio delle Prealpi Varesine, il maglio di Ghirla (Valganna), edificato sul torrente Margorabbia a sud di Casanova e Raglio, rappresenta un esempio significativo di archeologia industriale.

Notizie certe relative alle attività siderurgiche, qui intraprese, sono documentate a partire dal XVIII secolo, sebbene non si possa escludere l'ipotesi di periodi produttivi precedenti. Risale infatti al 1791 la vendita della fucina di Ghirla a Vincenzo Pavoni di Dongo e Francesco Rusconi di Cunardo.
Qui si forgiavano principalmente attrezzi agricoli ed utensili da maniscalco, oltre a diversi strumenti propri delle mansioni artigiane locali (vergelle, pialle, raspe, ecc.). Il maglio impiegava una decina di operai e, nel 1813, produceva ancora 220 quintali di manufatti. L'attività della famiglia Pavoni, divenuta l'unica proprietaria nel corso dell'Ottocento, si protrasse fin verso la metà del XX secolo.

Nell'ambito di una tecnica di lavorazione del ferro comune in tutta Europa, soprattutto tra Settecento ed Ottocento sebbene già in uso fin dal Quattrocento, il maglio a testa d'asino veniva, in genere, impiegato nella spianatura delle vergelle e dei masselli di ferro incandescenti, rifiniti in seguito col martello sull'incudine.
In Italia, il maglio conobbe notevole diffusione nelle aree alpine e specialmente prealpine, grazie all'abbondanza di acqua e legname. Ancora nella prima metà del Novecento, un simile procedimento di lavorazione siderurgica, endemico di nicchie ambientali di media e, talora, alta montagna, connotava quella "siderurgia alpina" che era andata distinguendosi dalla "siderurgia industriale". Questo tipo di manifattura, tra XIX e XX secolo, veniva ancora impiegato nella produzione di attrezzi da lavoro per l'agricoltura e l'edilizia, non di rado ricuperando rottami di ferro.

Il Maglio di Ghirla, interno (località Valganna)
Il Maglio di Ghirla, interno (località Valganna).

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